La legge 30 novembre 2017 n. 179 e la tutela dei segnalatori
- Posted by Matteo Milanesi
- On 23 Gennaio 2021
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Pratica già consolidata all’estero, il whistleblowing può davvero far breccia nella cultura dell’illegalità? Facciamo un breve excursus sulle esperienze che ci derivano da oltre le frontiere.
La legge 30 novembre 2017 n. 179 ha introdotto nel nostro ordinamento una disciplina a tutela dei c.d. “whistleblower” ovvero quei soggetti che effettuano segnalazioni di illeciti dei quali siano venuti a conoscenza nello svolgimento del loro lavoro.
La modifica principale riguarda l’art. 54-bis del Testo Unico del Pubblico Impiego, ma la disciplina viene estesa anche al settore privato modificando l’art. 6 del D.Lgs. 231/2001: nello specifico a tale articolo vengono aggiunti tre nuovi commi i quali prevedono l’istituzione di “uno o più canali che, a tutela dell’integrità dell’ente, consentano a coloro che a qualsiasi titolo rappresentino o dirigano l’ente, segnalazioni circostanziate di condotte costituenti reati o violazione del modello di organizzazione e gestione dell’ente”. Tali canali, inoltre, devono garantire la riservatezza dell’identità del segnalante e si prevede la necessaria predisposizione di uno strumento informatico per le segnalazioni.
La legge 179/2017 prevede inoltre che i modelli di gestione debbano prevedere sanzioni disciplinari per quei soggetti che violino le misure di tutela del segnalante, oltre alla previsione di sanzioni per chi effettui, con dolo o colpa, segnalazioni infondate. E’ poi prevista anche una tutela da eventuali ritorsioni del datore di lavoro: è infatti nullo il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del whistleblower, così come nulli sono il mutamento di mansioni o qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria.
Ma da cosa nasce la necessità di una tale tutela? Ogni ambiente di lavoro è una piccola realtà a sé stante, con le sue regole e le sue gerarchie e spesso chi viene a conoscenza di un illecito si guarda bene dal riportarlo perché il timore di ritorsioni, sanzioni, mobbing o addirittura licenziamento è forte.
Chi si fa i fatti suoi campa cent’anni, diceva qualcuno, e molto spesso è più facile nascondersi dietro tale affermazione che farsi avanti per segnalare una condotta scorretta: ciò che può spingere al silenzio, oltre alla paura di cui dicevamo prima, è un sentimento di scarso attaccamento all’azienda, c.d. employee engagement: il dipendente che non si sente in qualche modo parte del suo ambiente di lavoro può vivere una trasgressione come un semplice affar d’altri fintanto che non va ad intaccare la sua zona sicura.
Anche la possibilità che i colleghi perdano fiducia nella nostra persona, additandoci come “spie”, può trattenere dal segnalare condotte non conformi, una lesione alla nostra immagine, così come il timore che un illecito possa diventare un caso di cronaca andando così ad intaccare anche l’immagine pubblica e l’appeal della nostra azienda può essere un ottimo deterrente.
“Date ad un uomo una maschera ed egli vi dirà la verità” diceva Oscar Wilde e la nuova normativa si prende cura di stabilire anche alcune regole per garantire l’anonimato dei segnalatori, prevedendo l’obbligo di predisporre canali informatici per effettuare le segnalazioni. Un esempio, valido per la Pubblica Amministrazione e le società che con essa intrattengono rapporti, è dato dal portale ANAC, l’Autorità Nazionale Anticorruzione, il quale prevede la possibilità di dialogare direttamente con l’Autorità segnalando eventuali irregolarità riscontrate.
Esperienze dal mondo
All’estero la questione del whistleblowing è oggetto di attenzione già da diverso tempo, per tale ragione è possibile trarre spunti di riflessione, anche riguardo alla gestione delle segnalazioni e dei segnalatori.
L’Harvard Business Review in un recente articolo riporta il caso della Kimberly-Clark ove i responsabili dell’area compliance, intervistando i whistleblower che avevano segnalato delle irregolarità – in forma non anonima in questo caso – chiesero il loro parere riguardo al processo di segnalazione, se questo fosse funzionale e se l’avrebbero consigliato ad un collega, focalizzandosi così non tanto sul risultato dell’indagine quanto sul processo stesso che porta alla segnalazione di illeciti e irregolarità. In questo modo, Kimberly-Clark ha inteso valorizzare il ruolo dei segnalatori per far capire ai propri dipendenti che i loro input vengono valorizzati e rispettati.
Nello stesso articolo l’HBR cita una grande azienda di produzione, della quale però non fa il nome, la quale, venuta a conoscenza del fatto che i dipendenti di un suo stabilimento in un paese con un governo altamente autoritario, non riportavano gli illeciti temendo il controllo e le ritorsioni di quest’ultimo, ha deciso di istituire per loro un numero verde con sede nel Regno Unito. In questo modo i lavoratori potevano sentirsi liberi di riportare eventuali condotte scorrette.
Altre realtà invece, ed es. Mazars società di consulenza internazionale, hanno pubblicato sul proprio sito internet la procedura adottata e le garanzie previste per i dipendenti che riportano eventuali illeciti o regolarità con la possibilità al termine della pagina di compilare l’employee contact form per eventuali segnalazioni – in forma non anonima in questo caso.
Una tutela normativa era apparentemente necessaria nel nostro paese, ma sicuramente non basta a scoraggiare l’omertà, a vincere il disinteresse e a superare la paura di chi si trova a dover scegliere tra esporsi per segnalare una irregolarità e restarsene nel comodo angolino dei fatti propri: anche in questo caso ciò che è fondamentale è la cultura aziendale, trasmettere ai propri dipendenti un messaggio forte e chiaro riguardo le scelte etiche che i vertici e la dirigenza effettuano. Un chiaro esempio ci viene dato da Hen Eric Osmunden, CEO della Norsk Gjenvinning (NG), la più grande compagnia di raccolta e riciclaggio di rifiuti della Norvegia: quando nel 2012 venne nominato amministratore delegato non aveva alcuna esperienza nel settore e non aveva idea di quanto la corruzione lo avesse permeato. Nonostante la maggioranza dei dipendenti della NG non fosse corrotta, c’era comunque una sottocultura votata all’illegalità, alle scorciatoie, al “perché si è sempre fatto così” che necessitava di correzione. Stabilì quindi dei nuovi valori, traducendoli per ogni mansione in uno specifico codice di condotta (es. se sei un autista questo è quello che puoi o non puoi fare) al quale veniva richiesta espressa adesione da parte degli interessati; contemporaneamente venne dichiarata un’amnistia di quattro settimane nelle quali ogni dipendente poteva riferire qualsiasi comportamento illecito, proprio o altrui, senza ulteriori conseguenze a patto di non reiterarlo. Al termine del periodo di amnistia, l’azienda ha adottato una zero tolerance policy prevedendo tutta una serie di controlli per verificare il rispetto delle norme di condotta, i legami tra dipendenti dettati da interessi economici, la corrispondenza al vero dei dati finanziari, ecc.
Dopo 18 mesi dal termine dell’amnistia, il 44% dei top manager se ne era andato, non rispecchiandosi più nella nuova politica aziendale.
Long story short, nell’arco dei due anni successivi la NG è riuscita ripulire la propria immagine e quella del settore dei rifiuti in Norvegia adottando una politica di totale adesione e rispetto ai valori che si era prefissata.
Tiriamo le somme
La disciplina introdotta dalla Legge 179/2017, come abbiamo detto, ha lo scopo di tutelare e in qualche maniera spronare chi segnala illeciti e irregolarità sul luogo di lavoro, ma ancora una volta non è e non può essere sufficiente per un reale cambiamento delle regole del gioco: bisogna stabilire nuovi valori e mettere poi in campo un sistema di gestione, una reale compliance e adesione a questo nuovo sistema perché fintanto che la cultura prevalente darà indicazioni contrarie, la tutela normativa non sarà incentivo sufficiente al cambiamento.